BERLINGUER di Giuseppe Cacciatore

(“La città di Salerno”)

Se fosse stato vivo, Enrico Berlinguer avrebbe compiuto lo scorso 25 maggio 90 anni.  Forse perché troppo occupati a discettare di spread e spending review o a descrivere lo sfacelo della Lega e l’exploit antipartito e antipolitica del movimento di Grillo, i giornali italiani hanno dedicato uno spazio marginale (fatta eccezione, meno male, per l’Unità) alla ricorrenza. Penso, invece, che una riflessione sull’eredità del dirigente comunista – fatta la tara di ciò che sul piano politico-sociale come su quello ideologico ci separa dagli anni che videro Berlinguer segretario del PCI (1972-1984) e protagonista della nostra storia – possa ancora oggi servirci. Non si tratta però di operare discutibili forzature propagandistiche e di attribuire a Berlinguer le idee della sinistra del nuovo millennio e le trasfigurate forme programmatiche e organizzative di quel Partito Democratico nato sulle ceneri del disciolto partito comunista. Si renderebbe un cattivo servizio non solo al PD, ma innanzitutto allo stesso grande dirigente sardo, che non avrebbe forse condiviso  tutte le scelte dei suoi successori. Quello che qui vorrei fare è un esercizio di corretta critica storica, volto a rintracciare nelle scelte ideali e nelle analisi politiche di Berlinguer quegli elementi di innovazione politica e culturale (senza trascurare la presenza accanto ad essi di residui forti, mai messi in discussione, della tradizione comunista italiana da Gramsci a Togliatti) che allora o furono faticosamente recepiti all’interno stesso del PCI o vennero criticati e poco compresi nell’aspra polemica con la DC e soprattutto col PSI di Bettino Craxi. Prendiamo perciò alcune parole chiave del suo lessico politico e della sua azione e vediamo se tra esse e i problemi dell’oggi possano identificarsi, più che nessi non sempre plausibili di continuità, quanto meno elementi di forte innovazione e di rottura rispetto al contesto dell’epoca. Così, ad esempio, quando Berlinguer lanciò la parola d’ordine dell’austerità, non fu capito né a sinistra né a destra e ci fu chi parlò di ideologia pauperistica, di francescanesimo mascherato, di indistinzione tra i ceti sociali e di livellamento dei bisogni. Ma egli già intuiva, nei discorsi della fine degli anni ’70, come austerità significasse in primo luogo rigore, guerra agli sprechi, giustizia, efficienza, ordine e una “moralità nuova”. “Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (…) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, atto liberatorio per grandi masse (…), crea nuove solidarietà e potendo così ricevere consensi crescenti, diventa un ampio moto democratico al servizio di un’opera di trasformazione sociale”. Berlinguer non rinunciava alla prospettiva del socialismo, ma al tempo stesso preconizzava l’incontro di tutte le forze riformatrici impegnate ad interpretare e a realizzare i nuovi bisogni dell’uomo contemporaneo. Era questo il senso che egli dava alla prospettiva del compromesso storico fondata non su un accordo di basso cabotaggio ma su ciò che ancora oggi appare come la condizione imprescindibile per la realizzazione dell’alternativa democratica: l’intesa tra le forze popolari di ispirazione socialista e cattolica. Al di là del limite forse troppo politicistico e poco preoccupato di ampliare il terreno di incontro alle forze liberali, radicali e riformiste, resta l’idea portante di un processo nuovo basato non solo sull’ipotesi di un’alleanza politica, ma anche e soprattutto sulla mediazione tra “il quanto produrre e il che cosa e perché produrre”. E poi, come non ricordare la famosa dichiarazione – resa proprio a Mosca nel novembre del 1977, 60° della Rivoluzione d’Ottobre – sulla democrazia come valore storicamente universale. Infine chi oggi, dinanzi a questo squallido spettacolo della corruzione e dei privilegi della cosiddetta casta, non sottoscriverebbe queste parole di Berlinguer contro l’occupazione dello Stato da parte dei partiti (egli parlava dei partiti governativi, ma poi si è visto che il virus avrebbe colpito pezzi consistenti della classe politica) e delle loro correnti. “La questione morale esiste da tempo – [sono parole del 1980]. Ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabiltà del paese e la tenuta del regime democratico”.  Che distanza siderale tra questa battaglia per la questione morale, tesa a creare forza e consenso per una nuova classe politica di centro sinistra, e il becero nuovismo fine  se stesso, senza cultura, senza autentiche radici popolari, pericolosamente populista e demagogico.