TOGLIATTI, LE DIRETTIVE DI STALIN E LA VIA ITALIANA AL SOCIALISMO di Giuseppe D’Angelo

(“La città di Salerno”, 18 agosto 2014, p. 32).

Non deve essere molto semplice convivere con la definizione di “Migliore”, soprattutto quando questo termine assume un carattere tanto divisivo come nel caso di Palmiro Togliatti. Una figura che ha messo in tensione a tal punto le emotività soggettive, la ricerca storica, la critica politica e politologica da rimanerne essa stessa irrimediabilmente scissa. Togliatti e la sua “doppiezza”, e quella del suo partito: la natura di stretta osservanza sovietica, stalinista, antidemocratica per quel che riguarda i “fini”; e la natura nazionale, dialogica, democratica, partecipativa che avrebbe contraddistinto i “mezzi” attraverso i quali perseguire obiettivi da molti ritenuti inconfessabili. È utile aggiungere che, in troppi casi anche recentissimi, le scelte politiche di Togliatti, soprattutto dal suo rientro in Italia nel marzo del 1944, sono state interpretate come opzioni eterodirette, funzionali piú alle strategie staliniane che alle necessità del popolo italiano e, in ultima analisi, come ennesima dimostrazione della mancanza di autonomia della strategia politica del Partito Comunista Italiano e del suo piú autorevole dirigente.

 Forse è un bene, allora, ripensare alla figura di Palmiro Togliatti a cinquant’anni dalla morte, senza il ‘velo di Maya’ di una condanna preconcetta e anche a rischio di incorrere in una accusa di “veterocomunismo”.

Per esigenza di brevità, consideriamo solo due verità dis/velate. Togliatti fu uno stalinista, ma fu proprio grazie a ciò, che riuscì ad imporsi non solo come uno dei dirigenti autorevoli del movimento comunista internazionale, ma anche a ‘sopravvivere’ al terrore e alle violenze di quegli anni. Qualcuno dirà “per fortuna”; altri avrebbero preferito che una maggiore purezza ideologica (quale?) anti staliniana lo avesse condotto a una gloriosa ed eroica morte, o almeno a una riduzione della sua successiva influenza sui fatti e gli accadimenti di casa nostra. Un Migliore ‘meno migliore’, insomma. È difficile immaginare che un comunista trentenne, già arrestato piú volte dalla polizia fascista, costretto a trent’anni di esilio, che visse la temperie della costruzione del mito di Stalin potesse mantenersi ‘immune’; così come è difficile finanche immaginare che intere generazioni cresciute nel mito della rivoluzione – e di quella di Ottobre, in particolare – potessero non considerare quella esperienza storica come ‘l’alba’ di una nuova era.

In secondo luogo, quando rientrò in Italia, nel 1944, Togliatti eseguiva formalmente una disposizione di Stalin che esplicitamente approvò e autorizzò il viaggio in una riunione tenuta i primi giorni di marzo. È questo fatto sufficiente a far ritenere il viaggio del segretario del PCI solo in funzione delle esigenze diplomatiche e strategiche sovietiche? Credo di no. Sicuramente il placet di Stalin fu assolutamente indispensabile per muoversi da Mosca, giungere a Baku, ad Algeri ed, infine, a Napoli; così come la partenza di Togliatti fu funzionale al tentativo sovietico di entrare nello scacchiere del Mediterraneo e, di questa volontà, il riconoscimento del governo italiano fu parte importantissima (le trattative italo-sovietiche si avviarono il 10 febbraio, data della retrocessione delle provincie liberate sotto l’autorità del governo italiano, e il trattato fu ratificato il 14 marzo, quando Togliatti era già in viaggio). Ma il Migliore già da mesi (almeno dall’agosto 1943) insisteva sulla necessità di un suo ritorno in patria, con lo scopo di guidare il popolo italiano nella lotta contro il fascismo e il nazismo, costruendo una unità delle forze antifasciste (lettere a Dimitrov dell’estate del ’43). Erano, insomma, già chiare in lui le linee generali della successiva svolta di Salerno. Piú che di un mero emissario delle volontà staliniane, si può piú ragionevolmente parlare di un lungo e strisciante gioco delle parti, probabilmente ‘tipico’ delle liturgie sovietiche, affinché Stalin metabolizzasse prima, e proponesse come propria poi, una strategia almeno in parte suggerita dall’esterno. Per comprendere le straordinarie capacità dialettiche del Nostro, vale la pena ricordare quello che Ignazio Silone riferisce a Giorgio Bocca, molti anni dopo la rottura dello scrittore con il PCI. Dice Silone: «Aveva un suo modo di ascoltare a lungo, ma quando prendeva la parola era come se leggesse, veniva fuori la lunga riflessione, sapeva collegare fatti apparentemente secondari a cui nessuno di noi aveva pensato».

E, infine, per concludere, una breve valutazione sulla cosiddetta ‘via italiana al socialismo’: anch’essa una ‘invenzione’ togliattiana, tanto originale e radicata nella storia del nostro paese, ma anche capace di elaborare un disegno strategico che connota, sin dalla prima fase, la costruzione dei partiti di massa e che è fortemente influenzato dal suo pensiero, dalla sua personalità e dal suo peso politico. La costruzione del socialismo nell’Occidente capitalistico, della quale il partito politico rivoluzionario è strumento assolutamente indispensabile, è un progetto caratterizzato da alcuni elementi teorici e pratici: una propria dottrina costituzionale, una autonoma e definita nozione dell’idea di stato, un programma di governo, anche quando, si badi bene, non si è ancora partito di governo e, infine, la capacità di diventare, secondo la nota definizione gramsciana, classe dirigente, prima ancora che dominante. Indubbiamente il PCI fu forza di governo per pochi anni, dall’aprile 1944 al giugno 1947, prima di essere estromesso dall’esplodere della guerra fredda. In quei tre anni, però, sembrò pienamente definita l’idea di società proposta dai comunisti, così come si concretò negli articoli della Costituzione; ma anche come risultato della prassi di governo (articolo 7, amnistia, avvio della riforma agraria ecc.,), ma, piú ancora, dall’amministrazione delle realtà locali (il cosiddetto ‘buongoverno’ dei comunisti) che delineò un’idea di stato solidale che si ispirava al principio (per altro sancito dalla stessa Carta costituzionale) del ‘diritto diseguale’; infine come costruzione di una fitta rete di legami con i ceti popolari e, soprattutto, con tanti intellettuali che divennero elemento di cerniera tra il partito e l’insieme della società italiana.

L’orizzonte restava la rivoluzione e la costruzione di una società socialista; la praxis imponeva il confronto con la realtà così come storicamente si presentava. Non è doppiezza, ma capacità di ‘aderire alle pieghe della società’ per determinare tutti i possibili cambiamenti che le condizioni storiche, politiche e sociali consentissero.

Una visione che ha alla sua base passione e partecipazione, ma anche condivisione e capacità di aggregare ulteriore consenso.

Quanta differenza con l’idea occidentale di ‘partito’. David Apter, nel 1963, scriveva: «I partiti americani non sono centri di passione. Oggi sono poco piú che organismi “part-time”… I partiti non sembrano farsi portavoce di nulla di molto significativo. Forse la loro caratteristica piú lampante è la loro mancanza di ideologia». Aver voluto costruire un partito non occidentale è, forse, la vera colpa di Palmiro Togliatti.